Ho visto Gaber a Borgosesia, tanti anni fa, eppure me lo ricordo ancora perfettamente, dinoccolato, stralunato, pensatore non allineato, vero, non un attore sul palcoscenico, ma uno che era passato di lì, era salito sul palco, cantava inframmezzando i suoi monologhi, e tu te ne stavi lì incantato ad ascoltarlo. Gaber e Luporini erano stati per me un’eredità degli amici più grandi che canticchiavano le sue canzoni negli anni Settanta: devo dire che ero un po’invidiosa, ma mi sono rifatta. Daniele Conserva “cantattore one man show” varallese, da anni ha in repertorio e propone un omaggio a Giorgio Gaber, cui si rifà spesso nelle sue performance: “Cercando l’amico G”. Lunedì sono tornata in teatro a Varallo per vedere lo spettacolo, ideato nel 2023, in occasione del ventennale della scomparsa, il più recente di una serie di tributi che a partire dal 2004, anno in cui si tenne il primo Festival Gaber a Viareggio, Gioele Dix ha dedicato all’artista milanese, del quale è stato convinto ammiratore fin dall’adolescenza. Lavorare negli archivi e nelle “vecchie” biblioteche è affascinante: trovi quello che non cercavi, così Gioele Dix, accompagnato da due straordinari Maestri: Silvano Belfiore al pianoforte e Savino Cesario alle chitarre, grazie alla Fondazione Gaber, ha creato un patchwork di brani conosciuti con musiche e testi “variamente” inediti, versi mai musicati, canzoni mai eseguite dal vivo, monologhi abbozzati e mai completati. Il titolo riprende quello della famosa canzone degli anni Sessanta: Ma per fortuna che c’è Riccardo e introduce uno spettacolo musicale autentico: non serve scenografia e le luci sono ridotte all’essenziale. Chi ci pensa più oggi a cambiare il mondo? Chi ne ha più voglia? Gaber ci ha fatto sognare, capire che la politica ci riguarda tutti, che il “collettivo” era importante. Il monologo sull’attesa della Rivoluzione d’ottobre diventa un: Aspettando Godot e ci si sente persino un po’ in colpa, perché oggi sappiamo com’è andata a finire: “Devo fare qualcosa per cambiare la mia vita: cambio operatore telefonico”. “La mia generazione ha perso” non è uno sterile Amarcord, ma un prendere coscienza per cambiare. L’attualità di Gaber: sembrerebbe una frase fatta, ma davvero quei testi sembrano scritti ieri pomeriggio, descrivendo una relazione che cambia in peggio, come capita spesso: “Ora che non sono più innamorato”, fu riscritta vent’anni dopo da Gaber e Luporini, suddividendo più saggiamente le “colpe” del fallimento: le responsabilità del degrado di quell’intimità. Passati gli anni si chiede un po’ di indulgenza, anche per se stessi, ed ecco che quella parola evocata, sfiorata, sgualcita, saccheggiata, può finalmente tornare ad essere nuova: Amore. Invecchiando ci si può permettere di dare spazio alla speranza, si impara a essere più tolleranti, a convivere con i propri limiti. Eppure le coppie “scoppiano” anche dopo tanti anni, come i due coniugi torinesi, novantaquattro e ottantanove anni, settanta di matrimonio più quattro di fidanzamento, ma perché mai aspettare tanto ci si chiede? “Abbiamo aspettato che morissero i nostri figli”, con umorismo torinese, un po’ agghiacciante. Gaber era di una straordinaria “leggerezza”, ma non faceva sconti, in maniera semplice sapeva dire cose profondissime, come nella canzone-manifesto: “Un’idea”, poteva andare al mare con le Clark, non aveva timori reverenziali, come dimostra: “Punti di democrazia”, scritta a metà degli anni Novanta. “Era un modello per me”: afferma Gioele Dix ricordando il primo incontro dal vero con il Maestro d’elezione, nel 1991, al bar dell’Hotel Michelangelo di Mestre e il rimorso di non avergli mai confessato di avergli rubato una frase che gli giovò un apprezzamento unanime nel giudizio sul tema alla Maturità. Lo spettacolo era terminato, ma nessuno si muoveva, in sala c’era un silenzio carico di attesa, ed ecco il bis: un trascinante medley in cui sono state suonate e cantate, senza soluzione di continuità, variamente arrangiate e fuse tra loro, canzoni (o parti di canzoni) appartenenti al repertorio del primo Gaber, anni Sessanta: da Vengo a prenderti stasera al Cerutti Gino, Barbera e champagne, fino all’apoteosi di Shampoo. Uscire dal teatro in una fredda notte di gennaio canticchiando aiuta a sopportare la Vita, ma soprattutto a non prenderla troppo sul serio. Piera Mazzone